Un altro aneddoto da aggiungere al libro della sua vita fu quando volò via il tetto della cappella antica a causa di un vento fortissimo. Tuttavia lui, con pazienza e chiedendo dei materiali un po’ qua, un po’ là, lo rimise a posto, lavorando con le sue stesse mani. E la storia non finisce qui. Questo fatto lo spinse a progettare, insieme ad un gruppo di volontari, la costruzione di un altro tempio, quello attuale e definitivo che si trova nell’angolo di via Cagliero e corso San Martin.
Gesti sconcertanti che turbavano i suoi vescovi… attitudini, maniere apostoliche e pastorali di una chiesa “dei poveri” che erano accordi al suo modo di predicare e vivere. Il “Sermone sul monte” fu la sintesi del suo lavoro evangelizzatore – ci raccontavano Adolfo Lorenzo (stesso nome del santo patrono di Conesa), e sua moglie Ines (mi riferisco alla famiglia Carosso, di via Mitre 234 di questo paese di Rio Negro) nella sua testimonianza personale. Quest’uomo per bene, insieme alla moglie, accompagnò padre Juan nelle sue ultime ore (“aveva un tumore più grande della testa” si ricorda Adolfo … prima di andarsene manifestò nel suo testamento che voleva tornare in Conesa, la sua casa e la sua famiglia.. Adolfo e Ines lo portarono in Bahia Blanca con la loro macchina, fino all’infermeria della scuola “Don Bosco”, via Vieytes 150. Gli restarono accanto nei suoi ultimi momenti di vita. Dopo la sua morte a Bahia Blanca e la sistemazione dei documenti, lo riportarono dal suo popolo di Conesa, che lo aspettava addolorato dalla perdita e sorpreso dalla sua volontà di rimanere fra loro, nel piccolo cimitero dov’era stato tante volte, annunciando il Requiem… in Pace.
Oggi, in questo quartiere, c’è un centro comunitario che porta il suo nome. E’ il miglior monumento in sua memoria, della sua lotta instancabile. Il modo di lavorare del centro è come quello di Juan, assistono chi ha bisogno. Un gruppo generoso e ammirevole. Questo quartiere l’ha visto camminare per le sue strade sterrate, i suoi marciapiedi malconci, i terreni incolti; nel fango in inverno, nel caldo afoso durante l’estate. Un quartiere pieno di famiglie umili, molte di loro discendenti dagli schiavi neri che arrivarono in Patagones… Meticci, mulatti, nativi, creoli… tutti condividendo con i discendenti di coloni immigranti… miscela di razze e culture. Così è il sobborgo, così questo centro con la sua gente, un simbolo, un motore. Lui visitava le case, accarezzava i mocciosi dai grandi occhi, dai capelli ricci, senza scarpe e mezzo nudi, denutriti in tanti, ma felice di vedere il Padre Miracolo della Patagonia, perché dalle sue tasche sempre usciva qualche vestito, un paio di scarpe, dei tozzi di pane, un frutto… e dalla sua bocca l’invito a condividere il tetto della casa nella Parrocchia “San Lorenzo Martire” o di andare a giocare con altri figli adottivi delle colonie o a prendere dei vestiti alla Caritas. Impartiva un catechismo tradotto dall’italiano al creolo, in un linguaggio semplice ma profondo che tutti capivano e che penetrava fino in fondo, come una pioggerella nella terra arida, facendola diventare buona.
Predicava il perdono delle offese. In tanti si ricordano quando un venerdì santo, dopo aver predicato su questo perdono, prese un gruppo di ragazzi e alcuni pennelli ed è uscito sulla strada a imbiancare le scritte offensive sui muri… e a volte graffitava “Amatevi gli uni agli altri”, Venerdì: Cristo è morto per tutti noi”, “Lui è perdono”.